(Traduzione dell’autore.)
Ho appena finito di leggere, gentilmente costretto della mia compagna, un libro commovente intitolato Parir sin miedo (partorire senza paura). Nelle sue pagine è condensata l’eredità di Consuelo Ruiz, un’ostetrica controcorrente, che esercitò altruisticamente la sua professione per cinquant’anni, in un contesto di guerra e povertà, rivelandosi la più accanita paladina del parto naturale in Spagna.
Sostenendo la sua visione con l’esperienza di numerose partorienti che non riferivano alcuna sofferenza, e con scoperte scientifiche che dimostravano come il dolore delle contrazioni sia causato da un riflesso condizionato nella neocorteccia cerebrale, sostenne che, poiché il parto è una funzione fisiologica naturale comune a tutti gli esseri vivipari, se affrontato senza paura e senza fretta, non deve essere per forza doloroso. Tuttavia, la nostra società ansiosa e medicalizzata ha equiparato questa funzione vitale —poiché generatrice di vita— a una disfunzione, e come tale la tratta. Per risolverla rapidamente, adotta ricoveri di protocollo, farmaci, procedure invasive, se non direttamente interventi chirurgici in anestesia totale. Queste pratiche, col passare del tempo, hanno privato le donne della loro saggezza istintiva, installando paure basate sull’ignoranza e alterando le dinamiche spontanee della nascita.
Anche se oggi il parto naturale viene nuovamente accettato come una scelta legittima, resta una pratica minoritaria, che io stesso —nella mia completa ignoranza— consideravo fino a poco tempo fa con una certa sufficienza, come se fosse un capriccio di hippy masochiste.
Invece, adesso, provo una grande ammirazione per le donne che vogliono vivere il loro parto in modo naturale, poiché è una delle risorse più potenti di cui dispongono per riconnettersi con la loro natura ancestrale, e rompere così con quel dogma specista —così patetico come comunemente interiorizzato— che l’essere umano non è più un animale come gli altri. Anche se forse questa fantasia comincia a realizzarsi, dopo tanti sforzi per trascendere la Natura: non che l’uomo sia diventato un essere superiore, bensí un essere sempre più indifeso. Precisamente, una delle riflessioni che sorgono nelle memorie di Doña Consuelo è “Dove abbiamo lasciato il nostro istinto primario che ci fa procreare, allevare e proteggere la specie senza altro aiuto se non la natura stessa? Questo mi fa pensare che abbiamo perso posizioni nella scala degli esseri viventi.”
Oggi giorno l’artificializzazione della nascita è solo un aspetto, sia pure molto simbolico, della tendenza generale verso l’artificializzazione della nostra vita e del nostro corpo. Sotto la pressione della commercializzazione delle pulsioni (il “capitalismo libidinale” analizzato da Amador Fernández-Savater), le nuove generazioni aspirano, tra le altre aberrazioni, a modificare i propri corpi per assomigliare a modelli standardizzati, al fine di alleviare il loro disagio psicologico. È la deriva ialuronica di una cultura del corpo come merce, dove anche le minorenni hanno diritto di botox.
I “gadget tecnologici” (come li chiama abitualmente Aurelien Barrau[1] per distinguerli dai progressi scientifici) sono diventati parte integrante della nostra esistenza: li usiamo compulsivamente al punto che senza di essi ci sentiamo impotenti e proviamo una vera e propria angoscia.
Questa panoplia di protesi tecnologiche è pensata per semplificarci la vita, ma a quale prezzo? Ogni giorno che passa, la nostra società è sempre più fuori luogo… anche letteralmente: stiamo perdendo la capacità di orientarci senza il supporto della geolocalizzazione satellitare.
Per lo stesso principio del use it or loose it, l’esercizio della memoria è un’altra funzione cerebrale gravemente danneggiata dall’assuefazione digitale: abbiamo smesso di conservare nomi, concetti e conoscenze, poiché sappiamo intimamente che in pochi millisecondi qualsiasi motore di ricerca può aggiornarci con i dati di cui abbiamo bisogno. Non memorizziamo neanche più gli appuntamenti, affidandoci a un allarme o a una notifica.
È dimostrato però che concentrazione e pazienza sono le qualità che risentono di più di questa sovraesposizione ai dispositivi dell’era digitale: la moltiplicazione esponenziale degli stimoli audiovisivi, deleteria anche per gli adulti, diventa una vera piaga quando viene somministrata fin dall’infanzia, poiché influisce negativamente sulle capacità di concentrazione, apprendimento, empatia, gestione della frustrazione e controllo degli impulsi. Ragazze e ragazzi cresciuti davanti agli schermi diventano irascibili, incapaci di seguire una storia dall’inizio alla fine, e persino di esprimersi con un vocabolario adeguato alla loro età.[2]
Questa grave involuzione cognitiva va di pari passo con una più generalizzata atrofia degli antichi saperi dell’umanità: dalla navigazione astronomica all’antica arte della tessitura, dalla trazione animale alla mungitura manuale, ai rimedi naturali, alla falegnameria senza utensili elettrici, alla forgia… C’è una lunghissimo elenco di mestieri che per secoli sono stati patrimonio comune, mentre oggi sono divenuti obsoleti, essendo la loro pratica minoritaria e aneddotica, almeno nei paesi industrializzati.
La stessa accelerazione tecno-estrattivista che porta all’estinzione di massa delle specie con cui convivevamo seppellisce anche la saggezza tradizionale che avevamo accumulato per secoli, proprio quando è già evidente che conservare e recuperare queste conoscenze ataviche sarebbe fondamentale per facilitare la sopravvivenza delle generazioni future.
La nostra civiltà tecnoindustriale ha democratizzato tante meraviglie miracolose come la microchirurgia, il trasporto aereo intercontinentale, le telecomunicazioni… Tuttavia, come riassume bene Corinne Morel Darleux[3], “l’escalation tecnologica e la predazione sugli ecosistemi stanno segnando la fine del mondo come lo conosciamo. E il nostro futuro, con ogni probabilità, assomiglierà più a un villaggio rurale in India che a una colonia high-tech su Marte. Una prospettiva alla quale siamo completamente impreparati.”
Come se ciò non bastasse, insieme ad altre conoscenze ancestrali, stiamo perdendo anche la parte più essenziale della condizione umana: la capacità di socializzare, empatizzare e solidarizzare… virtù fondamentali per l’evoluzione della nostra specie, che sono state corrotte dall’individualismo tossico e dal cannibalismo sociale promosso dall’economia di mercato e sostenuto dalla forza delle tecnologie.
Se un futuro distopico ci aspetta, non sarà per aver sviluppato macchine così sofisticate da sembrare umane, ma piuttosto esseri umani così degenerati da sembrare macchine… individui così disumanizzati che non supererebbero un test di Voight-Kampff.
Assecondiamo acriticamente la tecnologizzazione della nostra esistenza perché assumiamo come nostri gli interessi del mercato, che ci inganna con i vantaggi di ogni nuovo gadget, omettendo surrettiziamente il loro vero costo in termini sociali e ambientali.
Tuttavia, in ambito tecnologico, persino il bene viene per nuocere. Come il brillante Ted Kaczynski (che riposi in pace) ha magistralmente dimostrato nei suoi scritti, ad ogni passo che facciamo nelle sabbie mobili del progresso tecno-industriale, affondiamo progressivamente nel controllo totalitario, nell’alienazione e nella perdita di autonomia. È il “progresso scorsoio”, di cui ci ammoniva il poeta e partigiano italiano Andrea Zanzotto.
Ogni volta che, nella nostra superstiziosa adorazione dell’ingegneria e dell’industria, vi deleghiamo la soluzione ai nostri bisogni, diventiamo non solo più dipendenti, ma anche più smarriti e depressi, poiché la realizzazione esistenziale consiste proprio nella sicurezza di sapersi capaci di garantire il proprio benessere fisico ed emotivo. Mentre abdichiamo a queste competenze in cambio di spiccioli (presunte sicurezze, comodità effimere), il senso della nostra vita si diluisce, fino alla completa dissoluzione.
Purtroppo, quando le persone non sono più in grado di dare un senso alla propria vita, ci pensano il mercato, le religioni e le ideologie a farlo al loro posto, attraverso attività surrogate e pericolose concezioni identitarie. Da qui il paradosso: i progressi tecnologici, anche se sembrano avere il potenziale di semplificarci la vita e democratizzare l’informazione e la conoscenza, in realtà stanno impoverendo e appiattendo la nostra esistenza.
Invece lo sviluppo delle low techs e la filosofia D.I.Y. (quella pratica del fai-da-te così radicata, ad esempio, nel movimento squatter) sono forme di empowerment davvero rivoluzionarie, poiché aprono orizzonti pratici di emancipazione da una società che promuove costantemente la truffa della specializzazione consumistica.
Pur non avendo nessuna cognizione di antropologia, e senza voler abbracciare il mito del buon selvaggio, sono ugualmente propenso a pensare che la massima pienezza esistenziale sia stata più comunemente raggiunta nelle società semplici e primitive. Servano da esempio alcune considerazioni scritte nel 1932 dal famoso navigatore solitario Alain Gerbault, grande esperto dell’antica cultura polinesiana e testimone diretto del suo annientamento:
Se visitaste, come me, tanti paesi, rimarreste inorriditi dall’incredibile pretesa dell’uomo bianco di imporre agli altri le sue abitudini e la sua strana concezione dell’esistenza. Di fronte ai conquistatori, la civiltà Inca scomparve […]. La civiltà azteca finì allo stesso modo, sebbene fosse di gran lunga superiore agli invasori nella scienza dell’astronomia e nell’arte della scultura. Sta a noi fare in modo che i polinesiani non facciano la stessa fine delle civiltà caraibiche, il che sarebbe un gran peccato per la razza bianca, che non ha voluto capire quanto questi indigeni, felici e senza bisogni, erano superiori a noi nella scienza del saper vivere. La nostra civiltà non vuole imparare la lezione che queste tribù ci offrono. Nonostante il suo sviluppo meccanico e scientifico, la felicità individuale è oppressa da un falso ideale: la conquista del denaro e dei piaceri fittizi che esso procura. Ecco perché sta già mostrando sintomi di declino e scomparirà come tutte le altre civiltà.
Se le nefaste pretese della nostra civiltà tecno-industriale erano già chiare un secolo fa, la mia generazione sta assistendo alla sua accelerazione esponenziale sulla via dell’immolazione tecnologica.
Ad esempio, l’isola di Flores (dove vivo adesso), nonostante appartenga a un paese sviluppato dell’Unione Europea, solo settant’anni fa non aveva nemmeno l’elettricità. Una donna più giovane di mia madre mi raccontò che quando era piccola gli abitanti vivevano quasi senza soldi, la drogheria vendeva solo farina e zucchero, che arrivavano due volte all’anno via mare, mentre per il resto le famiglie dovevano produrre il proprio cibo. La mortalità infantile era così elevata che la sepoltura di bare bianche era qualcosa di normale e comune, vissuto con gioia anche dagli altri bambini, poiché veniva detto loro che il bimbo deceduto si era trasformato in un angelo.
Invece uno dei primi ricordi della mia infanzia, in una città industriale all’inizio degli anni Ottanta, è una piccola TV in bianco e nero che i miei genitori mi lasciavano guardare una volta alla settimana.
Quando ero maggiorenne ho avuto il mio primo cellulare: lo usavo solo per gli SMS, perché le chiamate erano molto costose…
Nel frattempo, la digitalizzazione ha cambiato radicalmente il modo in cui lavoriamo e ci divertiamo, nella maggior parte dei settori: dall’industria al terziario, passando per la scienza e le arti (fotografia, musica, cinema…). Una rivoluzione tecnologica e culturale, che tocca tutti gli aspetti della vita moderna, consumata nell’arco di appena un paio di decenni. Giusto i vent’anni che ci sono voluti per diventare dipendenti da Internet…
Tutte quelle voluminose enciclopedie che occupavano mezza libreria nel soggiorno di ogni casa con un minimo di budget intellettuale sono andate inesorabilmente al macero: oggi sembrerebbero più obsolete che una collezione di VHS (anche se tra qualche decennio è molto probabile che le rimpiangeremo).
In meno di un lustro, con la diffusione di quei dispositivi individuali di tracciamento, controllo e alienazione chiamati smartphone, intere generazioni sono cadute nelle reti, e il WiFi è diventato necessario come l’acqua. “Il moltiplicarsi di questi paraocchi digitali, è più che noto, riduce la salute e le capacità cognitive. Però non si parla molto del fatto che, al ritmo attuale dei consumi, potremmo avere all’orizzonte solo pochi decenni di dispositivi digitali. Cosa succederà quando gli schermi si spegneranno?” si chiede giustamente Corinne Morel Darleux nel suo ultimo saggio “Quali saranno gli effetti della sua assenza? Perché su questi oggetti connessi si basa una vita di flussi e di archiviazione. È lì che troviamo la nostra dose di dopamina, il contatto quotidiano con la nostra famiglia, il nostro partner, il nostro gruppo di amici. È lì che ritroviamo la strada ancor prima di perderci, è lì che accumuliamo le nostre foto, la nostra musica, i nostri ricordi; È lì che ci indigniamo, dove ci scambiamo i cuoricini, dove registriamo i numeri che non ci preoccupiamo più di memorizzare, è lì che ci inventiamo una seconda vita. La generazione che sta diventando adulta oggi non ha conosciuto altra realtà che quella. E tutto questo dipende da una minuscola batteria al cobalto e al litio di cui annunciano la prossima penuria.”
La rivoluzione digitale, ai suoi inizi, non sembrava rappresentare alcun pericolo… tuttavia, una volta arrivata nelle nostre tasche sotto forma di piccoli touch screen, è diventata la più grande minaccia alla libertà e alla democrazia. “La digitalizzazione ci porta a un ‘capitalismo di sorveglianza’ le cui possibilità di controllo sociale fanno impallidire tutto ciò su cui i totalitarismi del passato avrebbero potuto contare” spiega Jorge Riechmann in un illuminante articolo di quattro anni fa, in cui analizza punto per punto le nocività che soffriamo per esserci arresi all’oligopolio digitale.
Ora, come se questa tremenda dipendenza non bastasse, arriva l’improvvisa esplosione della cosiddetta Intelligenza Artificiale, che rappresenta una pietra miliare ben più grande. Entriamo pericolosamente in un’altra categoria, con il solito entusiasmo acritico, ma in realtà aumentata: in soli tre mesi ChatGPT ha raggiunto cento milioni di utenti. E una delle principali caratteristiche di questa tecnologia è proprio quella di accelerare la nostra capacità produttiva: ciò che richiedeva settimane per essere concepito, progettato o programmato, ora può essere realizzato in pochi minuti… La grande accelerazione tecnologica finisce per retroalimentarsi in maniera esponenziale. Inquietarsi solo dei dilemmi etici che questa tecnologia comporta e tentare di legiferare per limitarli, è ingenuo quanto tentare di imprigionare un tirannosauro con qualche transenna.
L’Intelligenza Artificiale è la ciliegina sulla torta, l’ultimo grido nell’ampio catalogo della taumaturgia tecnologica, e per essa il mercato troverà presto applicazioni predatorie di ogni genere. Ad esempio, dopo il tipico esordio in campo militare —che è ovviamente il banco di prova di ogni tecnologia d’avanguardia— si sta già valutando il suo utilizzo per aumentare l’efficienza della pesca industriale… e accelerare così il saccheggio della poca fauna marina che resta.
Vorrei puntualizzare, tra l’altro, che non sto muovendo questa critica quale un vecchio retrogrado, né tanto meno in preda a un millenarismo complottista[4]: sono dipendente dal mio cellulare come chiunque altro, e da un quarto di secolo mi guadagno il pane con un’attività abbastanza specializzata, che in questo primo trimestre del 2024 mi ha visto lavorare alle più importanti conferenze tecnologiche: il Google Sub Worlds a Londra, il Cisco Live! ad Amsterdam, il Mobile World Congress a Barcellona e il tour Microsoft AI a Parigi. Erano tutte dedicate all’intelligenza artificiale, e il consenso generale tra i professionisti del settore è che la capacità di questa tecnologia non abbia limiti. Proprio quel che ci mancava, in una civiltà che si ostina a vivere al di sopra delle sue possibilitá, come se non ci fosse un domani… È il sogno ad occhi aperti di una società tecnofila fino al parossismo.
Come al solito, i limiti fisici di tutti i nuovi progressi vengono sistematicamente ignorati, soprattutto nell’ambito delle tecnologie informatiche. I data center che ospitano la capacità di calcolo necessaria per lo sviluppo massivo dell’intelligenza artificiale, infatti, sono estremamente energivori: interpellato al riguardo durante il Word Economic Forum di Davos, l’ideatore di Open AI e direttore esecutivo di Chat GPT Sam Altman ha invocato la fusione nucleare come la imminente soluzione miracolosa, nella quale lui stesso ha investito centinaia di milioni di euro.
Anche se il verbo “investire” potrebbe non essere il più appropriato, poiché per fortuna (come ben sanno i lettori di Antonio Turiel e Juan Bordera) difficilmente queste ricerche daranno i frutti sognati dai tecno-ottimisti come Altman, tanto meno a breve termine… Che è l’unico termine che ci resta.
Se il veleno è nella dose, come constatava Paracelso nel XVI secolo, il mio timore è che —in una società già seriamente intossicata dalla tecnologia— l’Intelligenza Artificiale possa costituire l’overdose letale, la goccia che faccia traboccare il vaso, il chip che determini l’obsolescenza programmata della nostra civiltà.
Abbiamo creato un paradiso artificiale infernale, dove tutto è finto, tutto è una concatenazione di uno e di zero, dal suono della nostra sveglia ogni mattina all’inconcepibile grandezza dell’economia finanziaria, sacra e inappellabile, che vertebra l’intero sistema (e che, tra l’altro, ha i giorni contati, essendo basata su logiche degne di un quadro di Escher).
Nella nostra accelerazione incontrollata, non solo siamo sempre più distanti dalla Natura, ma ci siamo addirittura astratti dalla realtà stessa, e abitiamo in un metamondo in cui siamo gli avatar vettoriali di un’umanità decadente. È la società dello spettacolo 2.0, una filiale fake del mondo che conoscevamo, dove l’individuo non è più semplice spettatore, ma protagonista della propria autorappresentazione nella vetrina virtuale delle reti, e nega a sé stesso il diritto e dovere di essere una persona reale. E se questa psicosi collettiva non fosse già di per sé abbastanza grottesca, ormai abbiamo imparato a dialogare faccia a faccia con algoritmi: abbiamo normalizzato le nostre interazioni con la voce materna di un software che ci capisce, ci guida e ci accompagna… Vediamo persone che parlano con l’orologio che hanno al polso, ma il gesto non ci stupisce perché siamo cresciuti guardando Super Car.
Nel 1936, Walter Benjamin pubblicava il suo celebre saggio L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica. Adesso sarebbe il momento di una riflessione molto più drastica, visto che siamo entrati nell’epoca della riproducibilità tecnica del cervello umano.
La critica al tecno-ottimismo è un leitmotiv del pensiero decrescentista: nelle circostanze attuali è abbastanza facile dimostrare che la magica panacea della tecnologia non basterà a tirarci fuori dal vicolo cieco. Ma temo che nell’era dei cani robot della Boston Dynamics e delle competizioni spaziali tra oligarchi transumanisti, dobbiamo essere più radicali e portare questa critica un passo più in lá: non solo la tecnologia non ci fornirà alcuna soluzione miracolosa, ma è proprio in essa che risiede lo spaventoso miraggio che ci fa credere superiori mentre diventiamo esseri sempre più sfortunati, fragili e subumani.
“L’approccio tecno-soluzionista è talmente sbagliato che contribuisce attivamente al collasso che pretende di voler contenere. […] Uscire dal tecno-scientismo soluzionista non sarebbe solo ecologicamente salvifico, ma anche intellettualmente sano e socialmente ricreativo” scrive Aurelien Barrau nel suo ultimo libro, L’hypotèse K.
Mentre A. Berlan, altro filosofo francese contemporaneo, conclude il suo saggio Terre et Liberté sottolineando l’urgenza di emanciparsi dal paradigma tecno-industriale: “Non vedo come sarebbe possibile limitare il disastro socio-ecologico in atto, che ipoteca sia la libertà che l’abitabilità del pianeta, senza smantellare interi settori dell’apparato industriale. E questo significa smettere di delegare ad essa la produzione delle nostre condizioni di esistenza, ripensare i nostri bisogni, recuperare le conoscenze che le tecnologie ci hanno fatto perdere, reimparare a vivere localmente” ma “la secessione che consiste nel non alimentare la mega-macchina non basta: è necessario anche sabotarla. […] I due obiettivi vanno perseguiti al contempo: da una parte il ritorno a forme di autonomia materiale locale, dall’altra la partecipazione alla lotta globale contro il sistema. Perché non possiamo permetterci di aspettare che crolli sotto il suo stesso peso. Più avanza, più distrugge le nostre condizioni di vita, che sono anche quelle della nostra autonomia, in una politica di terra bruciata che rende sempre più difficile sopravvivere senza protesi tecnologiche.”
Veniamo da un’epoca non troppo lontana dove per realizzare qualsiasi cosa era necessario dedicarvi molto tempo, pazienza e competenze. E ci stiamo muovendo a passi da gigante verso un’altra epoca non troppo lontana dove per ottenere qualsiasi cosa sarà necessario dedicarvi molto tempo, pazienza e competenze. Purtroppo, durante questo breve intermezzo a cui alcune generazioni hanno avuto il privilegio di assistere, il tempo stringe, la pazienza si atrofizza e le competenze vengono dimenticate. Al momento della verità, quando la tecnologia ci abbandoni, nemmeno John Zerzan saprà come cavarsela[5].
Le attuali generazioni di tossicodipendenti tecnologici, oltre al fatto che non sapranno fare la radice quadrata di ottantuno senza usare la calcolatrice, avranno un problema molto più serio: una volta privati del touch screen, non avranno più una identità propria né una ragione di vita, e non gli resterà nemmeno la creatività necessaria per ricominciare da zero, perché gli si sarà infeltrita a colpi di rete neurale profonda e di trasformazione (de)generativa. Temo proprio che la società futura, ammesso che il bellicismo attualmente in auge non spazzi via tutto, sarà drammaticamente disfunzionale rispetto alle problematiche della sussistenza in un pianeta gravemente ferito, poiché il suo squilibrio emozionale sarà ancora più opprimente che le temute carenze della sfera fisica.
Stiamo decisamente perdendo punti nella scala degli esseri viventi…
Ma questa amara constatazione, lungi dall’essere paralizzante, deve guidarci verso un urgente cambio di paradigma. Deve essere un ulteriore incentivo a rompere con i valori egemonici sia a livello sociale che individuale, e ad impegnarsi per la de-escalation tecno-industriale, l’autonomia, la cooperazione locale, l’empowerment individuale e collettivo, la riappropriazione delle competenze tradizionali, la calma e la semplicità.
Ora più che mai è necessario ispirarsi a pensatori lucidi come Ted Trainer o David Fleming, che a modo loro hanno cercato di tracciare una tabella di marcia verso un’organizzazione sociale più umana, e provare a metterla in pratica qui e ora. La dissidenza contro la mega-macchina non può continuare a essere procrastinata: dobbiamo adottarla subito e dare l’esempio per generare una massa critica capace di operare un cambiamento culturale.
E’ ora di sporcarsi le mani. Sono già tanti i giovani che lasciano le città per ritornare alla natura… L’altro ieri sono andato a trovare una collega che lavora per Research and Degrowth: in casa, col suo compagno, oltre a coltivare il proprio cibo forgiano coltelli, producono stoviglie e fabbricano saponi … è qualcosa di semplice e nobile, alla portata di chiunque. Sono numerosissime le attività che si possono intraprendere: dall’apicoltura alla produzione di funghi, dall’allevamento di larve di Tenebrio molitor o mosca soldato, alle vasche di spirulina, bioedilizia, agricoltura rigenerativa, trazione animale, gestione e filtrazione naturale dell’acqua, produzione di biogas, generazione idroelettrica di piccolo formato, forni solari, laboratori comunitari, cooperative di consumo, mercati di scambio, banche di semi, valute locali, trasporto marittimo a vela… tutto un mondo di opportunità per emanciparsi dalla nostra miserabile dipendenza dal sistema tecno-industriale estrattivista, e creare un vera economia partecipativa.
Allo stesso tempo, sul fronte della resistenza alla tecnocrazia, dobbiamo continuare a combattere la battaglia culturale sostenendo e ispirandoci a movimenti internazionali come la Vía Campesina o Extinction Rebellion, movimenti nazionali come les Soulèvements de la Terre o Ende Gelände, e ovviamente a scala locale, all’interno di organizzazioni già esistenti o favorendo la creazione di nuove.
Evitare la tremenda accelerazione tecnologica, in ogni caso, è soprattutto una questione di abiti mentali: proteggere i nostri figli dagli schermi e regalare loro tempo di qualità, disintossicarsi dalla fugace dopamina che ci regala l’uso del cellulare, disertare gli aeroporti, spostarsi meno in auto e più in bicicletta…
Meno fretta e più contemplazione, meno efficienza e più salute emozionale, meno testosterone e più cure, meno individualismo e più cooperazione, meno Netflix e più passeggiate nel bosco, meno ascensori e più scale, meno Zumba e più yoga, meno Auto-Tune e più fisarmonica.
Note
[1] Aurelien Barrau, rinomato astrofisico e uno dei filosofi più acuti dei nostri giorni, pecca spesso di un linguaggio pretenziosamente erudito e ridondante, sebbene poetico; Tuttavia, in una delle sue recenti presentazioni (tra l’altro particolarmente formale, nell’ambito degli incontri internazionali che si tengono annualmente dal 1946 all’Università di Ginevra) non ha potuto evitare di definire categoricamente l’intelligenza artificiale con una metafora accessibile a tutti: “una gigantesca cagata”. Le implicazioni di questa deliberata mancanza di finesse mi hanno turbato per mesi e mi hanno motivato a scrivere questa riflessione.
[2] “Non solo l’uso eccessivo di messaggi di testo atrofizza il lobo frontale (responsabile delle decisioni, del controllo degli impulsi e dell’autoregolazione), ma troppa tecnologia può ridurre quelle parti del cervello responsabili dell’elaborazione delle informazioni” Zachos, E. (2015). Technology is changing the millennial brain. Fonte pubblica. Disponibile su https://www.publicsource.org/techno-logy-is-changing-the-millennial-brain/
[3] Corinne Morel Darleux sarebbe una Yayo Herrero francese: attivista ecosocialista e autrice di bellissimi saggi come Plutôt couler en beauté que flotter sans grâce o Alors nous irons trouver la beauté ailleur (Edizioni Libertalia).
[4] Le preoccupazioni complottistiche partecipano del tragicomico e minano l’incisività di ogni critica solvente: perché preoccuparsi di ipotetiche sostanze nocive rilasciate segretamente nell’atmosfera, quando ogni automobile che ci passa davanti emette una serie di agenti cancerigeni arcinoti? Che senso avrebbe inoculare un nanochip in ogni dose di vaccino, se le persone non si separano più dal microchip del proprio smartphone, neanche per un minuto?
[5] John Zerzan è il teorico più noto dell’anarco-primitivismo. Alla fine degli anni Novanta ho assistito con entusiasmo ad una conferenza che il filosofo americano tenne all’università della mia città, dove alcuni anarchici gli chiesero candidamente di menzionare qualche proposta per mettere in pratica le sue idee, e Zerzan rispose gentilmente che noi, giovani squatters, eravamo molto più qualificati di lui per la prassi dei principi anarco-primitivisti: “In fin dei conti” —si scusò— “sono solo un intellettuale”.